venerdì 6 gennaio 2012

Ancora una notte insieme

Scrivo queste poche righe sull'onda del dolore più autentico.

Nessuna ironia, nessuna pianificazione. Solo un sincero, improvvisato epitaffio in prosa per quello che è (stato) il luogo del cuore di almeno un paio di generazioni, tra le migliori che abbiano mai calcato il suolo patrio, le quali si ritroveranno, da domenica in poi, defraudate dei sogni che ne hanno contrassegnato il passaggio all'età adulta.

Del Mirò conservo ricordi indelebili, lisergici, financo ierofanici. Rimembro ancora, me adolescente, costretto a forza dagli amici più in gamba di me, agguantare in un lampo l'atarassia al ritmo di Unz-Unz. Proprio io, che l'avevo sempre cercata, stupidamente, nelle più svariate ed esecrabili forme artistiche. Che coglione. Cosa mi sono perso, direbbe qualcuno.

Ciò che mi irretì maggiormente, la prima sera, furono la qualità e la democraticità pluralista dell'offerta musicale, l'educazione degli utenti e la morigeratezza dei loro costumi e atteggiamenti, il sapore estatico di cocktails venduti a prezzi irrisori, quasi umilianti, per non parlare del nitore dei bagni, solertemente cosparsi di polvere bianca igienizzante e di palloncini colorati atti a rallegrare le nostre pisciatine.

Signoreggiai sulla pista al ritmo di non so più quale capolavoro di Molella, mentre orde di giovani vestali guerreggiavano furenti al mero fine di conquistare il mio cuore.
Godetti sommamente, quella sera. Così sommamente che decisi, conscio della perniciosità di un eventuale, probabilissimo ingresso nel tunnel dance-hardcore, di non farvi più ritorno.

Le prime settimane susseguenti a tale, draconiana auto-imposizione, soffrii come un cane. Sognavo ancora il riconoscimento quale primo discepolo di Tony Manero. Mi procurai in breve tempo l'intera discografia di Prezioso, Molella, e del Maestro Gigi D'Agostino, in arte Gigi Dag. Ma niente leniva le ferite dell'anima già attanagliata dalla Mirò-dipendenza.

Poi, la luce: si avvicinava la Cena di Matura.

Il programma prevedeva, come antipasto di una serata unforgettable, una sontuosa libagione in un ristorante-gourmet nei pressi del locus amoenus. Un terribile subbuglio intestinale, sintomatico dell'ansia da ricongiungimento che mi opprimeva, mi impedì di concentrarmi sull'indubbia prelibatezza di leccornìe quali la braciola di maiale con patate novelle, fiore all'occhiello del menù del suddetto luogo di ristoro di cui, ahimè, non ricordo il nome. Peccato, ve lo avrei consigliato vivamente.

Dopo cena, giunti al parcheggio del Mirò, contemplai la sterminata folla a me affine in attesa di entrare a inebriarsi sulle note del Maestro Gigi Dag. In quel momento, tuttavia, lo spettro della dipendenza tornò, imperituro, ad offuscare la mia libidine, a violentare quell'ultima notte.

Decisi, quindi, serafico, di darmi al bagarinaggio estremo. Vendetti il ticket a un avventore con cui intuivo di detenere una certa qual intesa. Ci guadagnai circa sette euro. Il portafogli era più gonfio, ma la mia anima era già perduta e più che mai diafana. Ritornai nel pulmann, ieratico, accompagnato dall'afflato di un vento di quasi estate. Caddi come corpo morto cade, per risvegliarmi al mattino, unico sopravvissuto alla notte godereccia dei miei compagni di classe, a pensare a quella canzone che fa:

Non dormo e ho gli occhi aperti per te
Guardo fuori e guardo intorno
Com'è gonfia la strada
Di polvere e vento
Nel viale del ritorno


Mi pare pleonastico aggiungere che non parteciperò a quest'ultima notte insieme. Il mio cuore non reggerebbe il colpo. Quindi preferisco restarmene nella mia stanza, da solo, a piangere. Perché è da soli, che si piange un amore.

Ci tengo a regalarmi, e a regalarvi, giusto due immagini, particolarmente icastiche, dei bei tempi che furono.

Lignano08173












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Adesso andate via. Voglio restare solo con la malinconia.

Il re fa rullare le gonadi

Qualche giorno fa (precisamente venerdì 2 luglio) fui condotto, a mia insaputa, al festival anarco - insurrezionalista di Cordenons. Al fine di non ledere la dignità e la privacy del mio aguzzino (sono misericordiosamente pio), lo chiamerò Stefan Tierry. Egli parrebbe essere (a mia insaputa) un amico del sottoscritto. Elegante come Lapo Elkann, esagitato dal desiderio di far strage di cuori (seh, va be') in balli infuocati sulle note di Gatto Panceri remixate da Germano Mosconi, mi ritrovo, invece, catapultato in un covo di comunisti. Brutti, sporchi, ma buoni; che, detto in sintesi, significa "coglioni" (cit.). A mio agio come Luttwak alla Marcia per la Pace, chiedo delucidazioni a quel sovversivo, ebbro di empietà, che è il Tierry. Sta per arrivare il delfino di Lenin, Marco Travaglio. Pare che, per quivi giungere, abbia dirottato un aereo Airfra...ehm...Alitalia diretto in Qatar, minacciando il pilota di inviargli in regalo, in triplice copia, tutti i suoi pallosissimi, e faziosi, libercoli. Comprensibilissimo il sacro terrore del poveretto.
Per le poche anime salve che non lo conoscessero, pubblico la foto che ritengo maggiormente esplicativa della contraddittorietà di fondo di tale, losco, figuro, abile ad assoggettare la plebe a colpi di balle spaziali (cit.).
TravaglioLo si scruti con dovizia: chiaramente  frustrato, tonto (cit.) e gracilino, viene colto sul fatto (quotidiano) nel tentativo, pregno di vergogna, di celare il pugno chiuso,triste simbolo (eufemisticamente) desueto, la cui puerile utilizzazione appare sintomatica di quel nostalgismo sessantottino che è fondativo della sua produzione libraria, da sempre in fondo alle classifiche di vendita. Non so cosa ho scritto, ma andiamo avanti. Con vigore, e gloriosa sicumera. Sempre.
Dicevamo: tale pugnetto viene esibito, con deviata blasfemia, in contrapposizione all'effigie del Santo Sovrano Sommo, Re Silvio I. Uomo garbato, (e)retto, buono, e per questo sottoposto al compiaciuto, sempiterno martirio da parte del Pacciani della Penna.

Operata sì doverosa digressione, si proceda col dettagliato resoconto dei sotterfugi comunisti andati in scena in quella notte di mezza estate.
Trabbaglio, nonostante il solerte dirottamento del mezzo, raggiunge gli adepti scarlatti con il solito, colpevolissimo ritardo, crimine di cui suole vantarsi con esondante boria all'interno della sua setta, ricevendo in cambio baci e abbracci. Mi fate pena.
Abbarbicato alla sua poltrona in pelle di scimmia proboscidea, Travaglio propala Saggezza, ostenta sagacia, dispensa amore. Ritenendosi un fine umorista, azzarda qualche battuta, alimentando in sommo grado l'ilarità del pubblico (che, evidentemente, è lo stesso di Zelig).
Precipua questione da lui esposta (?) sono le 112 leggi ad personam (ma cche vvo' ddi'?) che Silvio la Luce e i suoi apostoli avrebbero (nella sua mente criminosa) promulgato in 15 anni di (encomiabile) operato. Fossimo in un paese minimamente civile, un calunniatore come Travaglio verrebbe condannato a trent'anni di ramazza. Ma Silvio detiene la Pietas, e alla sua coscienza pulita si deve la totale assenza di denunce e procedimenti penali nei confronti del misero soldatino piemontese, nonché di quell'altro trozkista sfigato, lì, Luttazzi. Fossi in Silvio, chiederei a tutti e due 40 miliardi ciascuno. Cribbio (cit.).

La Messa Rossa prosegue all'insegna della faziosità criminosa. Si dice che B. è un cattivone, che porta sfiga, che paga per fare l'amore (cit.), che è un mafioso, che è amico di mafiosi, che ruba i biscottini a Napolitano, che i suoi capelli non sono suoi, che è basso (mi dissocio. Soprattutto da quest'ultima, bieca, menzogna). Poco prima dell'agognata conclusione del festival anarcoide, al re viene contestato perfino l'uso, ritenuto (solo da Travaglio) improprio, del legittimo impedimento.
Io mi chiedo: si può essere più vili di così? Può un sovrano non disporre, nell'arco di un misero anno e mezzo, del tempo necessario a farsi interrogare da quei sovvertitori dell'ordine costituito che sono i giudici? Mi chiedo, inoltre, come faccia Silvio ad avere tutta questa pazienza con voi, plebaglia intrisa d'ignoranza crassa.
Diglielo, Silvio. Fai vedere quale impresa (la più recente) ti coinvolse in terra brasiliana:
ballerine


Soddisfatti?

Ecco, ora vorrei proprio vedervi, voi bolscevichi: lo sguardo contrito, attonito e obnubilato, nel contemplare il più apodittico fra i legittimi impedimenti di Re Silvio.
Non ha tempo per la Giustizia, rassegnatevi. Tenetevi le ghiande, lasciategli le ali (cit.).

Travaglio chiude con una "battuta" (già detta un'ora prima: è pure smemorato, oltre a non saper costruire un banale soliloquio di due ore. Pessimo) sui presunti influssi negativi che Re Silvio avrebbe generato sulla nazionale di calcio brasiliana, sconfitta dall'Olanda proprio mentre il nostro Illuminato dispensava lezioni di politica estera a quel rozzo stalinista di Lula.

Ride, il popolo Rosso. Ma dde che?






Siete solo invidiosi.

Tutti quei dugonghi dimenticati

Spero di non risultare banale nel'asserire di rimpiangere i lunghi defecamenti infantili e puberali accompagnati dalla lettura appassionata di svariati numeri di Topolino impilati a comporre un modello in scala 1:5 della Cattedrale di Notre-Dame, ma devo dirvi questo: è con Topolino, che ci hanno fottuti. Ora vi spiego il perché, come direbbe Crepet.

Diciamocelo, guys: siamo tutti cresciuti leggendo Topolino sulla tazza del cesso. Le madri e i padri, ma soprattutto le madri, quando entravano in bagno dopo di noi, al termine di un'attesa estenuante i cui limiti temporali variavano dalla mezz'ora all'ora e mezza, ci invitavano, per le occasioni successive, a tirare la catena il prima possibile. Noi invece no: la merda doveva galleggiare sul fondo per almeno trenta minuti (e Orazio doveva come minimo riappacificarsi con Clarabella). Essa ci guardava, incredula. Un po' come Gasparri al primo due di picche. Non capiva. Non si capacitava della prospettiva, che andava delineandosi, di poter soggiogare l'Italia tutta. Noi, obnubilati dalle rutilanti vacanze di Pippo, continuavamo ad ignorarla mentre lei comodamente si espandeva, soverchiando il nostro olfatto e rendendoci insensibili al suo olezzo. Quando infine ci alzavamo, con l'impronta della tavoletta che si stagliava sul nostro culo ancora glabro, porgevamo l'ultimo saluto a quella creatura deliziosa, alla quale eravamo ormai indissolubilmente legati. Il marrone appariva, pur nelle sue numerose, fisiologiche variazioni cromatiche , un colore meraviglioso, accattivante come il trentaduesimo libro sull'Inter di Severgnini; la struttura stessa dello stronzo recava in noi somma fascinazione; il puzzo era assurto a rango di fragranza orientale con cui inebriare le nostre (e altrui) membra. Lacrime amare si univano al turbinare dello sciacquone.

Ormai compiaciuti della nostra abitudine alla merda, abbiamo iniziato a goderne voluttuosamente, scoprendoci a pieno agio nello sguazzarci dentro. Mamma e papà, con la loro consueta, pavida accondiscendenza, hanno provveduto all'anestesia totale, costringendoci, da discepoli di un dio fatti il culo, a credere a un dio a lieto fine. Abbiamo smesso di innamorarci di tutto, di correre dietro ai cani. Ci siamo piazzati davanti a una scatola, a ingurgitare valanghe di felicità in vitro. Il Bene trionfava sempre sul Male: Topolino catturava Gambadilegno, Biancaneve viveva per sempre felice e contenta, il principe Filippo salvava la principessa dai capelli dorati. Nel frattempo, Falcone e Borsellino venivano trucidati. Mamma e papà, per ringraziarli, eleggevano Silvio Berlusconi.

Ma la vita era bella, e noi, di tutto questo, non ci curavamo.

L'importante era che Hollj segnasse tanti gol e Benji parasse i calci di rigore, che Lupin fottesse quel fallito di Zenigata e si facesse inculare da quella troia di Margot (poi divenuta Fujiko), che Goku raggiungesse il livello di Super Sayian per salvare il mondo da Freezer. Nel frattempo, qualcuno ci stava rubando tutto.

Ma la vita era bella e noi, di tutto questo, non ci curavamo.

Poi siamo cresciuti.  Abbiamo pianto per l'infortunio di Del Piero a Udine, o per il rigore non dato a Ronaldo nello scontro con Iuliano, ma poco ci è fregato di un'anima salva spirata agli albori dell'ultimo anno del millennio.
A scuola, e nello sport, e con le ragazze, abbiamo iniziato a perdere spesso. Nel frattempo, mamma e papà compravano l'automobile nuova per stare tutti più comodi.

La vita cominciava ad essere un po' meno bella, ma noi, di tutto questo, non ci curavamo.

Per riempire le sempre più numerose voragini delle nostre misere esistenze, abbiamo iniziato a credere nell'aperitivo, mentre mamma e papà rieleggevano Silvio Berlusconi.

Poi ci siamo iscritti all'Università. Studiamo a memoria cose di cui ignoriamo il senso ultimo, nonché il fine pratico, ma lo facciamo ugualmente, a capo chino. Ignoranti come capre, ci esaltiamo per un trenta concessoci in Grazia da docenti ipocritamente indulgenti, appagati dalla nostra mediocrità abissale che in futuro eviterà con somma oculatezza di togliere loro il posto, e nel frattempo rimpingua le loro tasche con le rette sborsate da mamme e papà visceralmente ansiosi di un dottore in famiglia di cui vantarsi con l'amico operaio.

Ora non ci portiamo più in bagno il Topolino. Di Qui, Quo e Qua non ce ne frega più un cazzo e lo sciacquone lo tiriamo immediatamente perché la merda, adesso, comincia a puzzare.
Ma quando ci alziamo dalla tazza, con il culo non più glabro né marchiato dal segno della tavoletta, non possiamo fare altro che rassegnarci dinanzi alla riottosità delle feci a calarsi nelle fogne.
Chi ha voglia, dopo essersi rimboccato le maniche, tenta la risoluzione con lo sturacessi; i più abbienti chiamano la ditta per gli spurghi; i pezzenti cagherebbero in giardino, se l'avessero. Ma non ce l'hanno, quindi se la tengono dentro. In generale, alziamo bandiera bianca e lasciamo la merda al suo posto.

Anche perché fra un po' i negozi chiudono, e non abbiamo ancora comprato i regali di Natale per i nostri cari.

La merda ci penserà qualcun altro, a ingollarla o smaltirla. I figli servono a questo.

Buon Natale.

giovedì 5 gennaio 2012

Tra la Via Emilia e il West

Maestro
  









Tu chiamale, se vuoi, emozioni. Ma non cominciamo dalla fine. Si proceda con ordine e dovizia.
Tutto inizia martedì mattina, durante il consueto pellegrinaggio presso i miei due blog preferiti (Il vino degli altri e Wildcard). Scopro che quel bischero di Scanzi (nella foto, quello estraneo alla pinguedine) ha postato, con scarso (eufemismo) anticipo, la presentazione del suo ultimo libro, in programma all'enoteca Compagnia del Taglio di Modena  (bellissimo locus amoenus) alle 19.00 del giorno dopo. Leggo Modena, penso Pàvana. Penso che l'occasione di incontrare due maestri in un colpo solo sia troppo allettante. Penso che siamo in piena sessione d'esame, che il viaggio mi costerà un po', e che, presumibilmente, dovrò farlo da solo.
Fanculo,dico. Ci vado lo stesso. Nel frattempo, provo a convincere il fido Vanni a seguirmi. Lui glissa, tituba, scorge insormontabili impedimenta. C'è che ha un esame, nel pomeriggio.  Tuttavia, sento che accetterà l'indecente proposta, in caso di conseguimento di un buon voto.
Trenta spaccato. Ora Vanni non ha specchi a cui aggrapparsi, indi gli fracasso le palle finchè non accetta di accompagnarmi, con finta rassegnazione.
Partiamo alle 13.00 circa di mercoledì. Il bagaglio (minimale) comprende libri per gli autografi, testi d'esame (verranno colpevolmente ignorati), e le deprecabili, ma pratiche, macchine digitali (Mala tempora currunt (cit.) ). Tra una dissertazione filosofica (uh) e l'altra, facciamo scalo a Mestre e Bologna, per poi scendere a Modena. La giornata è bella, la Piccola città di Guccini e Berselli (ciao, Edmondo) appare tranquilla, ordinata e pulita. Un gentilissimo autoctono ci conduce all'ostello. Lo ringraziamo, prendiamo la camera e filiamo a docciarci, puzzosi di 2a classe Trenitalia (tralascio inevitabili risvolti biblici da Ostello della Gioventù). Arrivati in Via del Taglio, d'improvviso mi blocco: noto un tizio alto, sui trentacinque, capelli lunghi e barba incolta. Un trasandato (cit.) con le Timberland, somigliante ad Alessio Boni (il Matteo Carati de La meglio gioventù. Se non conoscete nè lui, nè il film, nè Berselli, inginocchiatevi sui ceci in attesa dell'Assunzione). Lui è lui, è Rui, è Scanzi. Il Maestro.
Mi avvicino, attanagliato dall'incredulità tipica dei momenti privilegiati, quando stai per stringere la mano a un tuo Eroe. Mi presento con un "ciao, sono Luca" (come se mi chiamassi Piersandroermenegildo), il Maestro risponde con un sorriso cordiale, "piacere". Poco dopo mi riavvicino, con in mano un Metodo Classico (?) dal perlage encomiabile (uh). Gli porgo C'è tempo, per l'autografo (originale, eh?). "A Luca Lopardo", gli suggerisco. Lui sorride: "Aah, non avevo capito fossi tu!". Tento di rassicurarlo con una battuta (volutamente british) sull'esiguità del numero dei Luca in Italia. "Scrivi: all'eroe che si è fatto cinque ore di treno per essere qui". Lui ridacchia, mi fa "tu sei pazzo". Gli chiedo l'ultima cosa da fan becero: la foto. Mentre Vanni si appresta a immortalarci, Scanzi se la ride e dice a Beppe Cottafavi: "ormai siamo alla follia pura". Bella, sembriamo Gianni e Pinotto. Facciamo due chiacchiere in merito a un problema da me postogli via mail. Me lo ricorda lui, non avevo intenzione di riparlarne (non è una faccenda che lo riguarda, ma la gente rombe le balle a lui, va sempre così). Troppa memoria, troppa bontà. Andrea Scanzi è un cazzeggiatore sontuoso, eclettico e competente, che o si ama o si odia. Per coloro che lo amano, Andrea è più di un grande giornalista, più di un eccellente scrittore: è un fratello, un amico, un compagno di avventure, al quale non riesci a dare del Lei. Neanche quando le differenze di età, cultura ed esperienza lo richiederebbero. Nemmeno quando, come nel mio caso, suoli dare del Lei a chiunque sia meno giovane di te anche di un solo mese. Andrea è un tipo a posto: gentile, garbato, disponibile. Buono (ma guai a far incazzare i buoni, vedi Walt Kowalski) e onesto, naturalmente votato al dialogo. Sul suo blog si diverte a sbertucciare, con malcelato sadismo, i molti (troppi) internauti dediti a solipsismi offensivi e inutili vilipendi nei suoi confronti. Brutta razza, i fanboys (e fangirls) ciechi e travalicatori. Come gli ultras, i truzzi, gli scout, gli astemi per scelta e le donne che aborrono i tacchi (ma idolatrano le Superga e le "ballerine". Diffidate, gente, diffidate: esse sono anche astemie, truzze, e hanno paura di guidare in autostrada. Pura manna dal cielo, per i divorzisti).
Insomma, Andrea è un grande. Leggetelo (La Stampa, Micromega, i suoi Libri) e lo amerete, perchè è un Paladino della Libertà. Se lo odierete, sarà solo perché appartenete al Popolo delle Libertà.
Perdonate la digressione, ma era necessaria. Torniamo a noi.
La presentazione tarda ad avviarsi. Nel frattempo, tutti (TUTTI) stanno bevendo lo stesso vino di Scanzi. Un'immagine impagabile (ho preso anch'io un calice del Bellei, ma in segno di umiltà e come secondo bicchiere, indi il plagio è pienamente remissibile).
Mentre il tasso alcolemico saliva, il danaro andava esaurendosi. Non ci sarebbero state tragiche scene da Compagno di Sbronze. La serata fila bella liscia, divertente e impreziosita dagli aneddoti di Maule e Cerruti, due stimati produttori e personaggi singolari. Alla fine della presentazione compro il libro, e (non l'immaginereste mai) me lo faccio autografare. Andrea fa una bella dedica, gli accenno al leggero trip da vino e ci stringiamo la mano. Lui rimarrà lì, tra iperboliche leccornìe e bottiglie incredibili, fino alle 4 del mattino, rischiando (a suo dire) la cirrosi di Bukowski. Grazie e alla prossima.
Io e il buon Vanni andiamo alla ricerca di una pizzeria, e per trovarne una giriamo praticamente tutta la città. Modena è bella, pulitissima, si fa apprezzare (grazie anche ad alcune ordinanze, molto rigide, emanate dal Comune: niente alcool nè cibo per le strade, bravi). In Piazza Grande (stupenda) incrociamo un gruppo di inglesine. La più graziosa del gruppo si ferma, la invitiamo a bere qualcosa ma nisba. Addio, baby.
Si torna, satolli, all'ostello, dove ci attende un'insperata sospresa: in tv danno il lisergico Shaolin soccer. Che plot, che attori, che doppiaggio. Totemicamente trascendentale (?). Prima di dormire, Vanni mette su Vecchioni (inaccettabile). Forse non dovrei fidarmi troppo di lui.

Sveglia alle 7.15, non c'è tempo per la doccia. Il treno per Porretta Terme parte fra 55 minuti. In dirittura d'arrivo, iniziamo scorgere le verdi montagne di Pàvana: i campi, le colline, il fiume oramai inquinato e poco profondo (in italiano non esiste il contrario di profondo, non mi raccapezzo). Scesi dal treno, apprendiamo che Pàvana dista sette km, tutti in salita. Visto il caldo sommamente esecrabile (cit.), optiamo per la corriera.
Qui accade l'indicibile. Entriamo in un bar, al fine di acquistare i biglietti, ma non c'è nessuno. Vanni decide di recarsi alla toilette (atto palesemente empio), dove, con vibrante raccapriccio, trova la proprietaria (la diversamente Sora Lella) nell'atto di tirarsi su la sottana. Si odono grida belluine, rivolte al mio compagno di merende, reo di non aver richiesto alla donna il permesso scritto per accedere al bagno: "sarebbe obbligatoria la consumazione, dato che nell'ultimo mese ho speso centoventi euro per gli spurghi". Oltremodo affabile, dopo averci duramente redarguito, la signora ci sbatte sul banco i quattro biglietti della corriera. Per dispetto, compriamo dei tortini al limone al mini - market vicino al suo baretto. Tiè.
In corriera, un pavanese ci spiega dove fermarci per  giungere al Tempio del Maestrone. Eccolo là, il cancello verde visto in quel documentario. Io e il buon Vanni ci guardiamo negli occhi, colmi di felicità. Vicini al portone d'ingresso, notiamo Guccini presissimo tra telefono e computer, quindi decidiamo di aspettare in cortile senza chiamare nessuno. Una parente del Maestrone ci nota e annuncia la nostra presenza al Magister, il quale appare all'improvviso sulla soglia, con un coup de thèatre degno di Walter il Mago. Rimaniamo folgorati dalla sua aura mistica, la stretta di mano denota soggezione siderale. "Buongiorno, ragazzi - sorride, con l'aria del nonno un po' burbero, ma gentile - purtroppo al momento sono impegnatissimo, mi dispiace di non potervi dedicare troppo tempo". Scambiamo due parole: da dove veniamo, se Trieste - Trieste o dintorni, quando uscirà il nuovo disco, non prima del 2011 ma forse arriverà un romanzo.  Gli occhi semichiusi, un leggerissimo ingobbimento, il Maestrone pare invecchiato sul serio. Da vicino, i settant'anni glieli dai tutti, purtroppo. Li compirà il 14 giugno, così gli consegnamo il regalo di compleanno (un Ramandolo 2006, acquistato nella miglior enoteca di Monfalcone, cat.Sticazzi). Lui ringrazia e porta il dono dentro casa. "Ci vada piano" gli dico, mentre Vanni prepara la macchina per il Sacro Immortalamento. "Ah, vedo che avete portato la..." sorride il Guccio. Ci mettiamo in posa, uno alla volta. Il Venerabile pone il pesante braccio da grizzly sulle nostre spalle, a me viene da ridere. A Vanni no, Egli non ha sentimenti. Appurata la buona riuscita della foto, ringraziamo il Maestro e ci salutiamo, nella speranza di rivederlo ancora.
Decidiamo, gaudenti e baldanzosi, di ritornare a Porretta a piedi (pura follia) attraverso l'assolata Via Francigena. Prima, però, passiamo per il leggendario Mulino di Chicon. Quello da cui il fratello del nonno di Guccini, Enrico, uscì un giorno lontano per tentare la fortuna in America, probabilmente chiudendo dietro a sè la porta verde (cit.), che ovviamente fotografiamo.
Il posto è davvero splendido, poetico, leggero. Aleggia un senso di pace infinita. Guccini non poteva che crescere qui, tra i saggi ignoranti di montagna, che sapevano Dante a memoria e improvvisavano di poesia.
Reduci da un tracimante piatto di pasta al ragù di opinabile fattura (sopperita dalla cordialità del gestore del locale, un toscanaccio patoc), camminiamo sulla già citata Via Francigena, tra gustose pesche noci e un chinotto oramai frizzante quanto Debora Serracchiani. Giungiamo, stremati, alla stazione di Porretta.
Il resto del viaggio lo si può tralasciare senza eccessivi sensi di colpa. Tra una granita e un biglietto mancato, un'anziana scassaballe e un inquietante baciatore di microfoni in preda a un orrorifico, interminabile amplesso telefonico, io e l'amico Vanni torniamo a casa. Ci abbracciamo, per chiudere degnamente due giorni indimenticabili, il cui ricordo ci accompagnerà fino alla fine dei giorni. Fino a quando, ormai vecchi, racconteremo ai nipoti (se ce ne saranno) di quanto era bello, quando Andrea Scanzi scriveva e Francesco Guccini ancora cantava.
 
 Maestrone
 
 
 




Idolo con Vanni 2